Quaestio facti. Revista Internacional sobre Razonamiento Probatorio
Quaestio facti. International Journal on Evidential Legal Reasoning
Sección: Conjeturas y refutaciones
2025 l 9 pp. 211-223
Madrid, 2025
DOI: 10.33115/udg_bib/qf.i9.23148
Marcial Pons Ediciones Jurídicas y Sociales
© Loredana Garlati
ISSN: 2604-6202
Recibido: 02/05/2025 | Aceptado: 11/06/2025 | Publicado online: 27/06/2025
Editado bajo licencia Reconocimiento 4.0 Internacional de Creative Commons
PROVE LEGALI E INTIMO CONVINCIMENTO.
STRADE PARALLELE O INEVITABILE INTRECCIO?
Note a margine di Taking the Evolution of the Standards of Proof for a Criminal Conviction Seriously di Jacopo Della Torre
Loredana Garlati
Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno
Università degli Studi Milano-Bicocca, Italia
loredana.garlati@unimib.it
https://orcid.org/0000-0003-2677-3100
Abstract: Il saggio si propone di offrire un contributo di discussione e di approfondimento allo studio svolto da Jacopo Della Torre relativo all’analisi comparativa dei differenti standard probatori adottati nel tempo per raggiungere la certezza della decisione penale. In ragione dell’ampiezza dei temi trattati, ci si soffermerà in particolare sul sistema di prove legali e sul passaggio all’intimo convincimento, con specifico riferimento alla realtà francese.
PAROLE CHIAVI: prove legali; indizi indubitati; tortura; intimo convincimento; giuria.
Legal Evidence and Intimate Conviction:
Parallel Paths or Inevitable Intertwining?
Marginal Note to Taking the Evolution of Proof of a Criminal Conviction Seriously by Jacopo Della Torre
ABSTRACT: The essay aims to provide a contribution to the discussion and in-depth analysis of Jacopo Della Torre’s research, which focuses on the comparative analysis of different standards adopted of proof for a criminal conviction. The historical-legal analysis focuses on the system of legal evidence and the transition to intimate conviction, with specific reference to the French reality.
KEYWORDS: legal proof; unquestionable circumstantial evidence; judicial torture; intime conviction; jury.
Sommario: 1. OBIETTIVO VERITÀ.— 2. IN NOME DELLA CERTEZZA: PROVE LEGALI E CONVINCIMENTO DEL GIUDICE.— 3. LIBERO CONVINCIMENTO O ARBITRIO?
Quid est veritas? Questo il potente interrogativo che Giovanni nel suo Vangelo (Gv 18:38) attribuisce a Ponzio Pilato quando Gesù dichiara di essere venuto al mondo per testimoniare la verità. L’interrogativo esprime al tempo stesso il tormento e il dramma interiore di chi cerca il vero, ma cela forse un’arroganza sfidante e al tempo stesso rassegnata di fronte all’impossibilità di offrire una risposta. Gesù infatti tace, perché, come commentava Sciascia (1979), «l’eterna domanda può trovare risposta soltanto nella verità, non in una spiegazione o definizione della verità. La verità è». Come Gesù aveva affermato: “Io sono colui che sono”, «così la verità è colei che è. Il potere ne vuole spiegazione allo stesso modo che della menzogna in cui si inscrive può darne» (p. 216).
Nel processo penale questa verità è l’esito di un percorso verso l’accertamento di un fatto (lo suggerisce la semantica di procedere da cui il termine processo deriva) e conduce al riconoscimento della colpevolezza o dell’innocenza di un imputato. Le moderne culture giuridiche occidentali ravvisano nella ricerca della verità la fonte ultima di legittimazione della giurisdizione ed è una verità che nel processo nasce, come già insegnavano i giuristi medievali, da una contrapposizione tra tesi opposte 1. Il punto nodale sarebbe verificare se nella storia le parti chiamate a sostenere tesi e antitesi (accusa e difesa) abbiano sempre operato in una posizione di parità.
Non sempre la verità processuale coincide con quella fattuale, poiché si sostanzia in una ricostruzione dei fatti operata attraverso l’uso di mezzi probatori, filtrati, a loro volta, dall’apprezzamento dell’organo giudicante. Essa pertanto non può che essere probabile, perché umana, e come tale fallace. Solo gli illuministi si illudevano sul punto (Ferrajoli, 1989, p. 24), mentre noi siamo consapevoli che essa «si avvicina a quella oggettiva senza poterla mai di fatto raggiungere» (Rosoni, 1995, p. 303 e in generale p. 299-305).
La verità processuale, dunque, deve essere per forza approssimativa? Ha ragione Ferrajoli (1989, p. 23) quando sostiene che pensare di giungere in ambito processuale ad una realtà assoluta e certa è un’ingenuità epistemologica? Se la verità processuale è verità formale per definizione, quella materiale è solo una pretesa soggettiva e un’illusione? Il dibattito è antico e forse irrisolvibile.
Proprio per quanto indicato, essa è sempre e incessantemente attraversata dal dubbio, come argutamente ricordava Sciascia (1986) quando sottolineava che, per quanto potesse apparire paradossale, «la scelta della professione del giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio».
Quel dubbio può essere il più possibile fugato dall’adozione di parametri probatori che assicurino il raggiungimento di questo obiettivo. A questo tema Jacopo Della Torre dedica un saggio in cui analizza l’evoluzione storica e comparativa degli standard di prova per la condanna penale, esaminando in profondità i principali criteri: certezza morale, intima convinzione, la regola del Beyond a Reasonable Doubt (BARD), senza trascurare un’ampia ricostruzione del sistema di prove legali.
L’obiettivo dell’autore è ambizioso: nella ricerca di un ‘sistema’ che funga da garanzia per l’imputato egli cerca le regole capaci di assicurare la soglia minima che deve essere raggiunta affinché un’ipotesi sia accettata come sufficientemente provata dal giudice di fatto (Della Torre, 2025, p. 158). E per raggiungere questo traguardo l’autore compie un’analisi diacronica con il piglio dello storico del diritto, per delineare una futura amministrazione equa e imparziale della giustizia, a tutela della reputazione e della libertà dell’individuo da accuse infondate.
Un’impresa ardua, quasi impossibile, verrebbe da dire, ma Della Torre offre una prospettiva stimolante, con un’accurata descrizione effettuata sulla base di una corposa storiografia e di un apprezzabile incursione nelle fonti dei periodi volta per volta esaminati.
Condanna e assoluzione scaturiscono da null’altro se non dalla maggior o minore attendibilità degli strumenti probatori, tenendo fede alla massima romana che invitava a preferire la libertà di un delinquente alla condanna di un innocente 2 e che ha attraversato la dottrina di diritto comune con la variante, presente anche nel testo medievale della legge, di sanctius est al posto di satius est (Azo, 1577, C. 4.19.25, de probationibus l. sciant cuncti, n. 1, fol. 286). E sebbene la glossa Sanctius, D.48.19.5, de poenis l. absentem si affanni a precisare che il termine deve essere inteso come melius, l’espressione riconduce inevitabilmente a una sacralità e un’intangibilità del principio, enunciazione del principio del favor rei e un’embrionale formulazione della presunzione di innocenza, in cui sacro e profano, religione e diritto si intrecciano in un abbraccio serrato (Garlati, 2004, p. 389, nt. 6).
Lo scontro è da sempre tra due massime: veritas o auctoritas facit iudicium? Nel primo caso alla base del giudizio si pone la purezza cristallina della verità raggiunta con un’indagine conoscitiva imparziale e oggettiva. Nel secondo, il lemma auctoritas richiama tanto l’idea che res iudicata pro veritate habetur (ossia si attribuisce alla pronuncia definitiva il valore di verità raggiunta), quanto la concezione che è l’autorità (politica o giudiziaria) a incidere (e influenzare) la decisione finale. Le regole probatorie costituiscono un argine garantista sia al potere dei magistrati di decidere della vita, della libertà, della proprietà di un individuo, sia ad un’eventuale ingerenza politica, che non è mai stata del tutto estranea all’amministrazione della giustizia (Della Torre, 2025, p. 158) 3.
Da storica del diritto la mia attenzione non può che soffermarsi sul sistema di prove legali e sul passaggio all’intima convinzione, rinviando per quanto riguarda la regola del BARD all’articolata trattazione svolta da Della Torre.
Consapevole che la letteratura sul sistema di prove legali è sterminata, tanto da rendere forse superflua qualsiasi aggiunta, nel saggio si richiameranno solo pochi testi considerati imprescindibili, provando ad aggiungere qualche riflessione stimolata dalla lettura del contributo di Della Torre.
Una prima considerazione. Il termine ‘prove legali’ reca in sé qualcosa di ambiguo perché sembrerebbe rimandare all’idea di una legalità formale. Al contrario, nel medioevo innocenziano, l’aggettivo rinviava a una visione olistica: l’espressione equivaleva a ordinamento. Anche questo può forse spiegare la crociata feroce degli Illuministi contro l’accezione romano-canonica: essi infatti non accettavano che il lemma ‘legale’ non corrispondesse alle coordinate ‘legicentriche’ settecentesche.
Le prove legali sono, come è noto, il frutto di un’elaborazione dottrinale che, pur partendo dalla famosa legge Sciant cuncti (C. 4.19.25), costruì punto per punto una sorta di ideale scala gerarchica e di metodo ‘matematico’ per giungere alla certezza della colpevolezza dell’imputato. La legge esortava, in modo perentorio, «cuncti accusatores» a proporre azione solo se fondata su «testibus idoneis vel apertissimis documentis vel indiciis ad probationem indubitatis et luce clarioribus» 4. E per sottolineare che nel processo penale la posta in gioco era maggiore rispetto a quello civile e richiedeva prove più stringenti, si aggiunse che non solo dovevano essere luce clariories, ma che la luce cui qui ci si riferiva era quella meridiana 5, più luminosa, in grado di dissipare ombre e incertezze per rendere evidente agli occhi la forma delle cose. Spettò poi alla criminalistica creare una sofisticata ‘architettura gotica’, fatta di guglie, colonne, basi, che consentisse di graduare la certezza raggiunta in ragione del grado di probabilità probatoria.
Di fronte alla legge Sciant cuncti e al successivo apporto dottrinale non può non sottolinearsi un certo fraintendimento. Il frammento fissava i criteri per intentare il giudizio (oggi diremmo per proporre l’azione penale): nessuno poteva avviare il iudicium in mancanza di testi idonei, documenti, o indizi indubitati (su cui torneremo). I criminalisti, operando un’estensione semantica e concettuale, assunsero quegli stessi parametri a fondamento della pronuncia di condanna, spostando i canoni necessari per iniziare il processo alla fase decisionale, con inevitabili conseguenze sull’esecuzione della pena.
La griglia giustinianea nel tempo si sgretolò e si allargò in una serie di casi e sottocasi che permettevano di fatto al giudice di orientarsi con notevole libertà e di soppesare gli elementi probatori con un certo margine di manovra.
Non possiamo disconoscere che le prove legali miravano a difendere l’imputato dall’arbitrio del magistrato, che godeva, nella logica inquisitoria, di un potere inquirente e giudicante che ne annullavano la terzietà (ma non teoricamente l’imparzialità). Tuttavia a un simile sistema di valutazione ex ante dell’incidenza probatoria di ogni singolo elemento non era estranea quella discrezionale del giudice: basterebbe pensare al tema degli indizi.
Sebbene meticolosamente suddivisi in lievi, gravi, gravissimi, non repugnanti, remoti, verosimili, propinqui, indubitati (Rosoni, 1995, p. 120 e 153; Garlati, 1999, p. 98-105), in un crescendo terminologico che ne indica un progressiva incidenza probatoria, spettava però al giudice inserire in ognuna delle possibili caselle gli elementi emersi, non sufficienti per lo più per la condanna a una pena ordinaria (regola non valida, per taluni, per gli indubitati) 6, ma sufficienti o per disporre la tortura o per configurare, se sommati secondo la formula quae singula non prosunt collecta iuvant 7, una prova semi piena, utile ai fini dell’irrogazione di una pena inferiore a quella prevista per il reato commesso.
Il magistrato ne calibrava peso, portato, incidenza, lasciandosi convincere da quella verità presumibile che essi lasciavano intravedere.
La stessa dottrina era costretta ad ammettere che in tema di indizi non era possibile fornire un univoco orientamento perché tutto era rimessa arbitrio boni iudicis.
Depurato da talune iniquità, quali la tortura o la pena straordinaria, il sistema di prove legali può configurarsi quale strumento a favore dell’imputato e forse solo una semplificazione o un fraintendimento della storiografia, riguardante l’«itinerario dottrinale e istituzionale che, tra Sette e Ottocento, ha condotto dalla prova legale all’intimo convincimento», ha ridotto uno «snodo decisivo nella storia del diritto penale a un felice passaggio dalle forme antiche e “cattive” della prova legale a quelle moderne e “buone” dell’intimo convincimento» (Dezza, 2001, p. CLXXVIII-CLXXIX).
Se si è disposti ad abbandonare certi luoghi comuni o la lettura del regime di prove legali effettuata dai riformatori del Settecento, che «per criticarlo lo ingabbiano in una struttura un po’ artificiale, tutta vera nei dettagli, ma non sempre corrispondente a quella che emerge da una più libera analisi storica» (Rosoni, 1995, p. 40), appare chiaro che la configurazione di una certezza di tipo legale si realizza nella sintesi tra obbligatorietà del rispetto delle regole e libertà valutativa.
Il giurista indica al giudice il valore vincolante dei differenti strumenti di prova e gli effetti che ne derivano, ma senza ridurlo a un automa e a un mero esecutore delle indicazioni dottrinali. Nella concreta dinamica processuale il giudice continua a godere di spazi più o meno ampi di libertà e sono quelli a garantire, alla fine, il buon funzionamento del sistema.
Ciò che non è consentito al giudice dal meccanismo di prove legali è di pronunciarsi se la ‘certezza morale’ da lui raggiunta non è al contempo corredata da prove rituali e necessarie per dare spessore alla convinzione acquisita ‘ in coscienza’ (Garlati, 2004, p. 391).
La penalistica matura, italiana e no, dal Quattro-Cinquecento in poi affronterà con decisione e cercherà (non sempre riuscendoci) di sciogliere tutti i nodi connessi all’utilizzo delle prove legali, intimamente connotanti la forma inquisitoria del processo, nata per ricercare, con meticolosità parossistica ed esasperata, una verità oggettiva, traguardo raggiungibile solo attraverso l’irrigidimento, la fissità e la sclerotizzazione quantitativo-qualitativa del valore delle singole prove.
Ma proprio in nome di quella verità ‘assoluta’ agognata e inseguita si compirono molte atrocità. La crepa che mette in discussione quanto fin qui sostenuto è l’irruzione, come si anticipava, della tortura. Essa non era mezzo di prova, ma lecito strumento processuale, utilizzato non, come spesso superficialmente e semplicisticamente si afferma, per estorcere una confessione (anche se quello era quanto poi accadeva nei fatti (Garlati, 2015, p. 69-93)) ma per raggiungere un fine più alto: serviva ad eruendam veritatem, secondo la formula ulpianea 8 importata dai criminalisti del maturo diritto comune. Superfluo sottolineare che la tortura stimolava l’imputato a parlare, e proprio per la sua capacità di consentire di individuare colpevoli (ma colpevoli veri?) durerà per millenni.
Erano le parole ad alimentare la macchina inquisitoria (ciò che conta è che l’imputato parli, che diventi collaboratore di giustizia fino a sacrificare se stesso (Marchetti, 1994)), ma quelle affermazioni erano attendibili solo in presenza di riscontri obiettivi, per evitare il punto di rottura tra verità materiale e processuale.
Il giudice era infatti chiamato a verificare la corrispondenza tra quanto dichiarato del ‘paziente’ durante la quaestio e gli indizi fino a qual punto raccolti (e che ne avevano legittimato il ricorso 9). Nello stesso tempo la dottrina cercava anche di fissare regole ‘garantiste’ nell’esercizio della tortura (Garlati, 1999, p. 170-175 e relative note), stabilendo modi, tempi, strumenti, anche se si trattava di regole flessibili, plastiche e derogabili in ragione della materia con cui erano forgiate: le opiniones dei doctores e la prassi del foro, che si alimentavano reciprocamente, senza nessuna sanzione certa per chi vi derogasse e con la possibilità che nuove prassi plasmassero nuove regole.
Paradossalmente era proprio la rigidità delle prove legali, che annoverava pochi strumenti tra quelli in grado di consentire l’applicazione della prova ordinaria (le cosiddette prove piene, così come indicate dalla legge Sciant cuncti), a rendere necessario il ricorso a un congegno in grado al tempo stesso di raggiungere la certezza della colpevolezza dell’imputato e di superare il rigore di un sistema che avrebbe finito per produrre un numero esiguo di condanne, tradendo il fine ultimo espresso dal principio ne crimina manenat impunita.
È la dimostrazione della difficoltà di trovare standard probatori che garantiscano al contempo la protezione dell’innocente, l’assicurazione del colpevole, il rispetto dei diritti, la sicurezza sociale e la realizzazione della giustizia.
Erano le stesse finalità perseguite anche dal libero convincimento. Un ruolo importante nel passaggio dall’uno all’altro sistema va ascritto al ‘solito’ Beccaria. Il suo contributo sul punto è stato definito «una delle più significative conquiste del pensiero giuridico illuministico» (Caprioli, 2015, p. 31). Nel suo pensiero sembra quasi scorgersi il criterio empirico sopravvissuto nel BARD: quando i giudici americani nell’istruire le giurie dicono talvolta che il dubbio è ragionevole «quando fa venir meno la sicurezza che sarebbe necessaria per assumere decisioni importanti nella propria vita» (Caprioli, 2015, p. 33) riecheggiano le parole di Beccaria (1984) per il quale «la certezza che si richiede per accertare un uomo reo è quella che determina ogni uomo nelle operazioni più importanti della vita» (§ XIV, Indizi e forme dei giudizi, p. 58).
Beccaria, nel suo celeberrimo pamphlet, fornisce i principi giustificatori dell’introduzione della giuria penale, laddove afferma di preferire che la sorte di un uomo sia affidato all’ignoranza che giudica per sentimento piuttosto che alla scienza che giudica per opinione (§ XIV, Indizi e forme dei giudizi, p. 58).
Fu però una sorta di grande inganno, come insegnerà la Francia rivoluzionaria prima e l’Italia liberale poi. «Considerata il palladium delle libertà inglesi» (Pisanelli, 1856, p. 139) fu invece per la Francia un’istituzione «fallace» e «grandemente pericolosa» per quella «separazione tra fatto e diritto e il condizionamento del governo sulla formazione delle liste» (Miletti, 2011, p. 13).
In Francia l’introduzione della giuria penale, su imitazione dell’esperienza d’Oltremanica, aveva preso corpo già a partire dal 1789, quando con il decreto dell’8/9 ottobre — 3 novembre 10 si apportarono rilevanti modifiche all’antico rito inquisitorio, incarnato dalla famosa ordinanza di Luigi XIV del 1670, a lungo bersaglio degli strali riformistici. Seppur notevolmente rimaneggiata dal decreto voluto dall’Assemblea Costituente, l’antica normativa regia continuò però a rimanere in vigore 11 fino all’abolizione definitiva decretata con la legge 16-29 settembre 1791 12.
La legge del 1791 introduceva in un colpo solo giuria e libero convincimento, l’una formata da cittadini comuni, tecnicamente inesperti, l’altra inevitabile conseguenza della convinzione che le prove legali fossero troppo complesse per essere affidate a non giuristi 13.
I dodici componenti della giuria 14, più i tre di riserva, giuravano di decidere suivant conscience et intime conviction, avec l’impartialité et la fermeté qui conviennent à un homme libre 15: un’enunciazione che decretava senza possibilità di equivoci la fine del sistema di prove legali e che fu riprodotta, in uno svolgimento articolato di principi, tanto nel Code Merlin del 1795 16 quanto in quello napoleonico del 1808.
Quel giuramento “sul mio onore e sulla mia coscienza” in fondo sembrava riproporre la formula combattuta ed esecrata dagli illuministi stessi, la stessa con la quale, ad esempio, i senatori milanesi davano contro delle loro decisioni. Intima convinzione, certezza morale, coscienza, onore sembrano clausole moraleggianti e vaghe proprio in un’epoca che virava radicalmente verso la laicità.
Spettava al presidente del tribunale sottoporre alla giuria le questioni sulle quali era chiamata a dare il proprio responso. Si trattava di tre quesiti disposti in un ordine logico incontrovertibile, riguardanti il fatto, l’autore e l’intenzione 17. Le decisioni erano assunte con la maggioranza di dieci voti 18 e secondo un meccanismo complesso che comportava una votazione progressiva per ogni singola questione attraverso un sistema di palline bianche e nere (queste ultime erano quelle contrarie all’accusato) depositate in urne diversificate. Ogni volta, in modo solennemente retorico, il giurato deponeva il proprio voto mettendo la main sur son cœur, pronunciando tale formula: sur mon honneur et ma conscience, le fait est constant ou le fait ne me paraît pas constant; l’accusé est convaincu, ou l’accusé ne me paraît convaincu 19.
Sulla giuria pesarono da subito notevoli incertezze. Lo dimostrano i lavori preparatori del codice napoleonico. Robusti innesti inquisitori sul tessuto, precocemente liso, di matrice accusatoria operati da quel codice incisero inevitabilmente sui compiti della giuria e sull’accettazione delle cosiddette ‘prove morali’. Nel dibattito che precedette la sua promulgazione, vi era chi propugnava la totale abolizione della giuria, considerata il più funesto regalo fatto dall’Inghilterra 20, auspicando il ritorno ad una procedura totalmente inquisitoria, escludendo, tuttavia, un ripristino delle prove legali. L’intimo convincimento — secondo gli auspici di questa impostazione ‘restauratrice’ — sarebbe rimasto a presidio della valutazione delle prove, affidata però a professionisti del diritto.
Tuttavia, il timore che l’abolizione della giuria conducesse quasi inevitabilmente al ripristino delle prove legali finì per prevalere. La discussione al Consiglio di Stato fu vivace e a volte aspra, tra quanti asserivano il principio che i magistrati potessero essere assimilati a giurati e come tali avrebbero potuto formare il loro convincimento in sede dibattimentale e non sulla base di prove legali (volendo ottenere in tal modo sia la salvaguardia del libro convincimento sia l’impiego esclusivo di magistrati preparati ed esperti) e i tenaci difensori dell’impossibilità di separare il libero convincimento dall’istituto della giuria senza correre il rischio di giudici nuovamente armati di poteri straordinari per limitare i quali occorreva rispolverare la teorica delle prove legali (Esmein, 1978, p. 505-526).
Nonostante i dubbi «il soffio della civiltà scampò il giurì dalle strette del dispotismo imperiale» (Pisanelli, 1956, p. 62) e la giuria fu riproposta nel processo misto delineato dal codice napoleonico.
Così, l’art. 312 del codice di procedura criminale francese del 1808 invitava i giurati a promettere davanti a Dio e agli uomini di esaminare con la più scrupolosa attenzione le accuse mosse contro l’imputato e a decidere secondo coscienza ed intima convinzione, con quell’imparzialità e fermezza proprie di un uomo probo e libero 21, senza tradire né gli interessi dell’accusato né quelli della società 22.
La formula, impregnata di lirismo rivoluzionario, veniva ripresa dall’art. 342 23, il quale demandava alla coscienza dei giurati la decisione sulla verità del caso, in punto di fatto e di diritto, senza che essi dessero conto né dei mezzi per i quali erano rimasti convinti né delle regole dalle quali far dipendere la pienezza e la sufficienza di una prova (il che equivaleva a non indicare ex lege i criteri di valutazione probatoria o fissare i parametri entro i quali il giudizio doveva avvenire).
Secondo la formulazione dell’art. 342, attenendosi unicamente alle prove raccolte e senza considerare le conseguenze e l’impatto che la loro pronuncia poteva esercitare sulla vita dell’accusato, i giurati erano «chiamati per decidere se l’accusato è o non è colpevole del gran delitto che a lui vien imputato». Il tutto si riduceva a un unico quesito cui dare risposta: «avete voi un’intima convinzione?». Il libero convincimento, a lungo invocato per superare la fissità del sistema di prove legali, si limitava quindi a «verdetti formulati a monosillabi (“sì” o “no”)» (Cordero, 2012, p. 567) e così disciplinato finiva per essere asservito alla difesa del potere statuale, in una prospettiva più repressiva che garantista.
Non poteva esservi formula più limpida e più semplice per liquidare definitivamente il calcolo matematico cui si cercava di ancorare il sistema delle prove legali: il codice d’istruzione criminale, al pari delle normative del 1791, «ne pouvait donner des règles plus sûres que celles à tirer de la conviction morale des Jurés», una convinzione che si doveva formare prestando attenzione all’effettiva esistenza del corpo di reato e alla responsabilità dell’imputato, facendo uso «de toute sa sagacité pour apprécier les preuves qui résultent des débats» 24, tanto a carico che a discarico dell’accusato.
Sebbene la dichiarazione dei giurati non potesse essere soggetta ad alcun ricorso ex art. 350, nondimeno i giudici, qualora fossero unanimemente convinti che i giurati, pur nel pieno rispetto delle formali regole procedurali, si fossero «ingannati nella sostanza» e sempre che si trattasse di un verdetto di colpevolezza e non di assoluzione, sospendevano la sentenza ed esclusivamente per atto d’ufficio sottoponevano nuovamente la questione ad un altro corpo di giurati, di cui non poteva far parte nessuno dei membri precedenti (Daubanton, 1809, p. 376). Se la seconda pronuncia fosse stata conforme alla prima, la corte doveva immediatamente darvi corso, senza ulteriore ritardo 25.
Le due disposizioni attestano al contempo una velata diffidenza verso l’istituzione della giuria e una fiducia nei togati che andavano via via acquistando un peso maggiore rispetto al passato.
Fin dal suo affacciarsi sul palcoscenico rivoluzionario, la giuria aveva innescato un intenso dibattito tra favorevoli e contrari: un dibattito che si trascinò stancamente e quasi con le stesse argomentazioni nell’Italia liberale dominata dal codice di procedura penale del 1865 26 fino alla sua abrogazione con il codice del 1930 (Garlati, 2024, p. 178-180).
Il mio viaggio si ferma qui, alle colonne d’Ercole della codificazione italiana.
Resta da chiedersi quali potrebbero essere le incidenze (se possono esserci) delle ‘nuove tecnologie’ sull’evoluzione futura degli standard di prova, nel tentativo (da sempre inseguito) di limitare un intervento umano e di individuare effettivi criteri oggettivi. Al giudice bouche de loi di matrice montesquieuiana (Miletti, 2022, p. 195-220) si potrebbe giungere al giudice robot della futura ingegneria giuridica, dove non basterà l’interpretazione letterale, la semplicità della legge, ma conteranno algoritmi, precedenti, probabilità e forse si rimetteranno in discussione le regole probatorie. Un ritorno ai parametri della prova legale?
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Décret concernant la police de sûreté, la justice criminelle et l’établissement des jurés (2002). I codici napoleonici, 2. Codice di istruzione criminale, 1808. Giuffrè.
Décret sur la réformation de quelques points de la jurisprudence criminelle (2002). I codici napoleonici, 2. Codice di istruzione criminale, 1808. Giuffrè.
1 Sul tema della verità processuale si veda da ultimo Fiorelli et al. (2025).
2 Satius est impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari (D.48.19.5).
3 Si veda da ultimo il corposo libro di Flores, Franzinelli (2024).
4 Il testo era poi confluito nel diritto canonico, a dimostrazione del contributo offerto dal diritto della Chiesa e dalla sua dottrina all’affermazione del processo inquisitorio prima e alla gerarchia delle prove legali poi (C.2.q.8.c.2). Al diritto canonico va attribuito «il tentativo di predeterminare puntigliosamente i modi della certezza giudiziale, assegnando a ciascun mezzo di prova il corrispondente peso processuale»: Alessi Palazzolo (1979, p. 9 nt. 8). Sul rapporto tra inquisizione e Chiesa e la nascita del diritto penale pubblico cfr. anche Prodi (2000, p. 92-97 e 133-141).
5 Gl. Et luce, C.4.19.25, de probationibus l. sciant cuncti: «scilicet meridiana». La dizione è presente in Azo, nel passo della Lectura già citato. La presenza costante di tale riferimento nella dottrina successiva è individuata da Alessi Palazzolo (1979, p. 14, nt. 18). Bene fa Della Torre a richiamare sul punto il frammento absentem (D.48.19.5) che vietava di condannare penalmente il contumace sulla base delle mere presunzioni, svolgendo quasi la stessa funzione di tutela dell’innocente o di emersione di un favor rei pari a quanto indicato dalla legge sciant cuncti. Vi era però il problema di distinguere gli indizi dalle presunzioni, tema su cui la dottrina inciampò, considerando ora gli indizi distinti dalle presunzioni ora parificati. Cfr. Garlati (1999, p. 106-110 e relative note); Garlati (2004, p. 398, nt. 28.)
6 Attorno al tema degli indizi indubitati si affannano sia i commentatori che i criminalisti dell’età moderna. Il confronto e lo scontro che agita la scienza riguarda il loro grado probatorio. Alcuni sostenevano che fossero sufficiente per disporre la condanna dell’imputato, ma non per irrogare la pena di morte, sostituita da altre corporali ad arbitrio del giudice. Altri ritenevano applicabile la sola pena pecuniaria, mentre non mancava chi riteneva che fosse applicabile anche la pena capitale. Sul punto, per una disamina riassunta delle fonti, si rinvia a Garlati (1999, p. 101, nt. 66).
7 La massima si trova espressa in modo chiaro da Alberto da Gandino. L’autore afferma che indicia singula, quae non prosunt, tamen simul iuncta coadiuvant: Albertus Gandinus (1926 ed. H. Kantorowicz), Tractatus de maleficiis, tit. de praesumptionibus et indiciis indubitatis, n. 3, p. 91.
8 D. 47.10.15.41.
9 Sulle situazioni che conducevano alla tortura Garlati (1999, p. 151-155). Resta imprescindibile Fiorelli (1953-1954) ristampato inalterato nel 2023.
10 Décret sur la réformation de quelques points de la jurisprudence criminelle (2002, pp. 185-188). Sui tratti salienti di questo provvedimento cfr. Esmein (1978, p. 410-416). A dire il vero, il provvedimento del 1789 non contemplava espressamente l’istituto della giuria, ma un’embrionale forma di partecipazione popolare che si realizzava tramite gli adjoints (la cui figura era disciplinata dagli artt. 5-8), i quali presenziavano all’espletamento dei primi delicati atti di avvio dell’intera procedura e il cui compito cessava, secondo quanto disposto dall’art. 11, quando l’accusato compariva davanti al magistrato.
11 «L’Ordonnance de 1670 et les édits, déclarations et réglements concernant la matière criminelle, continueront d’étre observés en tout ce qui n’est pas contraire au présent décret, jusqu’à ce qui’il en ait été autrement ordonné»: Décret concernant la police de sûreté, la justice criminelle et l’établissement des jurés (2002, art. 28, p. 188).
12 Décret concernant la police de sûreté, la justice criminelle et l’établissement des jurés (2002, p. 189-216). Sui tratti generali dei provvedimenti del 1789 e del 1791 cfr. Esmein (1978, p. 399-439).
13 Sostiene Della Torre (2025, p. 179) che si abbandonava un sistema basato principalmente su standard di prova “oggettivi” a favore di uno basato esclusivamente su standard linguisticamente concepiti come gradi di persuasione perché legati alla stabilità delle convinzioni del decisore.
14 Sulle modalità di scelta dei dodici giurati cfr. Padoa Schioppa (1994, p. 133-135).
15 Décret concernant la police de sûreté, la justice criminelle et l’établissement des jurés (2002, tit. VI, art. 24, p. 200).
16 «La loi ne leur demande pas compte des moyen par lesquels ils se sont convaincus; elle ne leur prescrit point de règles desquelles ils doivent faire particulièrment dépendre la plénitude et la suffisance d’une preuve; elle leur prescrit de s’interroger eux-mêmes dans le silence et le recueillement, et de chercher, dans la sincérité de leur conscience, quelle impression ont faite sur leur raison les preuves rapportées contre l’accusé, et les moyens de sa défense. La loi ne leur dit point: Vous tiendrez pour vrai tout fait attesté par tel ou tel nombre de témoins. Elle ne leur dit pas non plus: Vous ne regarderez pas comme suffisamment établie toute preuve qui ne sera pas formée de tel procès-verbal, de telles pièces, de tant de témoins ou de tant d’indices. Elle ne leur fait que cette seule question, qui renferme toute la mesure de leurs devoirs: Avez-vous une intime conviction?» (Code des délits et des peins du 3 Brumaire, 4me année républicaine, Bruxelles, l’an 4e de la République Française, art. 372). La disposizione riprendeva, quasi letteralmente, il decreto del 29 settembre 1791 «che costituisce il puntuale regolamento applicativo della legge sulla giuria penale». Vedi Padoa Schioppa (1994, p. 135).
17 Décret concernant la police de sûreté, la justice criminelle et l’établissement des jurés (2002, tit. VII, art. 19, p. 201).
18 Il 19 fruttidoro anno V (5 settembre 1797) si prescrisse che i giurati nelle prime 24 ore non potessero votare contro o a favore dell’accusato se non all’unanimità. Se, trascorso quel lasso di tempo, non si fossero accordati, si tornava a giudicare secondo il principio maggioritario.
19 Décret concernant la police de sûreté, la justice criminelle et l’établissement des jurés (2002, tit. VII, art. 29, p. 202).
20 Cfr. Esmein (1978, p. 495).
21 Rispetto alla legge del 1791, si richiedeva l’imparzialità non del solo uomo libero (libero da pregiudizi, da influenze religiose o politiche) ma anche onesto (vale la pena sottolineare l’endiadi che riconosce in via assoluta il carattere di probità all’uomo libero): «c’est-à-dire à un homme d’un honneur irréprochable, digne de l’estime publique la mieux méritée, digne enfin de cette estime générale qui subjugue et en impose à toutes passions ou intérêts particuliers».. Così Daubanton (1809, p. 370).
22 Codice d’instruzione criminale dell’Impero francese (1809, art. 312, p. 193).
23 Assunta la decisione, i giurati, rientrati in aula, venivano interrogati dal presidente della corte sul risultato raggiunto. Il capo dei giurati, portavoce dell’intera giuria, alzatosi in piedi e con la mano sul cuore, a simboleggiare la solennità del momento e la ripresa del giuramento formulato ad avvio del dibattimento, pronunciava queste parole: «Sul mio onore e la mia conscienza, avanti a Dio, ed avanti gli uomini la dichiarazione del corpo dei giurati è: Sì, l’accusato, ec. Non, l’accusato ec.». Vedi Codice d’instruzione criminale dell’Impero francese (1809, art. 348, p. 223).
24 Entrambe le citazioni sono di Carnot (1829, p. 628 e 631).
25 Codice d’instruzione criminale dell’Impero francese (1809, art. 352, p. 225).
26 A giudizio pressoché unanime, la giuria in Italia funzionava male, perché composta da soggetti «vittime della superfetazione, ignari del tecnicismo giudiziario» e che pertanto «rispondono a caso, perché non hanno la bussola del processo scritto, né la chiave del processo orale» e decidono lasciandosi trascinare più dall’oratoria, tanto dell’accusa quanto della difesa, che dalle prove, generando errori fatali sia che assolvano sia che condannino. Il giudizio era epsresso da Giuriati (1893, p. 161, 175-183).